STUDIO
DOTT.

GIORGIO FOGAZZI


Pittura leggibile della “luce” che si chiama pensiero. E’ bello passeggiare tra i tuoi quadri perché riesco ad immaginare un grande balcone sull’infinito per assorbire lo spazio materiale.

Caro Pietro,
incontrarti è stato un piacere, che si rinnova nel momento in cui mi accingo a scrivere le riflessioni, che ho fatto sui tuoi quadri. Non mi era ancora accaduto di provare tanto interesse, per una pittura che presuppone il paesaggio.
La tipicità che ho colto, consiste nel modo in cui la luce si diffonde sull’intera superficie della composizione, dopo che hai escluso la presenza di una fonte fissa, che la lettura naturalistica individua nella fisicità del sole o della luna e che, quella trascendente, fa risalire idealmente a un Dio, che crea il chiaroscuro della separazione, tra bene e male.
Come avviene, ad esempio, nella pittura di Caravaggio, per ciò che, del Barocco, è dovuto alla ispirazione della Grazia. L’altro elemento che ha attirato la mia attenzione, è costituito dalla compatibilità, tra luce e materia, che comporta la presenza di spazi controluce.
Infine, la ricerca d’un paesaggio che tende a diluirsi nello sfumato, che suggerisce l’ispessimento, quasi palpabile, del vuoto, mi fa pensare che l’oggetto della tua ricerca consista nella rappresentazione della luce pura, liberata dal paesaggio, che pure ne rappresenta il presupposto.
Cerchi, dunque, lo spessore d’una luce, che poi è quella della tua identità, la quale manifesti una purezza che non escluda la compatibilità con la materia.
E’ la fatica di conciliare il materiale con l’immateriale.
In termini filosofici, la ricerca riguarda l’individuazione d’una via, per conciliare gli opposti.
In cosa consista quella via, dove conduca, ed a quali esiti certi, pervenga, trovo che sia magistralmente precisato nel primo quadro del tuo catalogo, dove presenti l’autoritratto.
Quel quadro è la sintesi della tua ricerca di ieri, di oggi e di domani, finché il modo di osservare, resterà quello che possiedi oggi.
Prima di affrontare una lettura filologica dell’autoritratto, ritengo opportuno introdurre alcuni concetti.
Innanzitutto quelli di limite e di illimite.
Il concetto di limite è dettato dal fatto che disponiamo d’una sensorità e d’una capacità di decidere, le quali consentono forme di concentrazione dell’essere, capaci di resistere all’attrazione dello spazio non discontinuo o illimitato o infinito.
Quello di illimite, trova invece consistenza proprio nella percezione del limite che, nel linguaggio storico, assume la denominazione di ente.
Se ciò che assumiamo come limitato (ad esempio la visione di una mela) fosse un ente, separato dal contesto, dovrebbe esistere una sostanza o una situazione che determini la separazione.
Se ciò non avvenisse, non esisterebbe discontinuità tra spazio limitato e quello circostante.
Se questa essenza esiste, essa non potrebbe avere consistenza di sostanza, perché, in questo caso, il paesaggio non potrebbe ammettere separazione alcuna.
Ciò che opera la separazione, può dunque essere solamente una situazione ideale che, però, in quanto tale, appartiene solamente al soggetto che la mobilità, ma non alla realtà, che ne resterà estranea. Questa situazione ideale, è codificata dal linguaggio, con la parola “nulla”.
E’ dunque il nulla, l’elemento separatore nel paesaggio, che è una distesa di limiti, nella non discontinuità dell’illimite.
Ma se il nulla appartenesse alla realtà degli enti, essi non sarebbero raggiungibili dai sensi, che spazierebbero in una distesa di niente. Invece, i sensi, colgono il limite, e diventano presenze nella continuità dell’illimite.
Detto questo, non potremo prescindere dal considerare che la percezione si riferisce, sempre, ad apparizioni dell’infinito.
Una prima conseguenza di ciò, conduce ad apprendere che, nella distesa non discontinua, non può esistere il chiaroscuro, almeno come risultante di spazi, alternativi, tra l’essere ed il non essere.
La luce, dunque, che è espressione dell’infinito, come ogni cosa, non può esistere di giorno e cessare di essere di notte.
Se questo avvenisse, saremmo in presenza di una contraddizione dell’essere non discontinuo, cosa che non può appartenere alla realtà.
La luce, dunque, c’è al buio ed anche alla presenza del sole.
Un paesaggio chiaroscurale e tridimensionale appartiene, così, a qualche cosa, che non può essere compatibile con la realtà.
Un paesaggio prospettico, fatto di piani degradanti, è cosa che può appartenere ad una convenzione strutturale, ma non alla realtà, che si dipana senza soluzione di continuità.
La ricerca d’una struttura leggibile della luce, non può consistere nella conciliazione dell’immateriale col materiale, che forma uno spazio ineludibilmente tridimensionale.
La soluzione ditale problema, consiste nella proposizione di fissare il limite dell’illimite contando, come è, e non può essere diversamente nella non discontinuità dell’essere, sul fatto che esso consiste in una sola e immutabile sostanza.
Questa sostanza, non può essere la materia, intesa come solidità fisica, perché essa alterna, per necessità propria, il solido a ciò che non lo è, e non può che essere tridimensionale.
Tale sostanza non può essere nemmeno ciò che nasce da quella “luce” che si chiama pensiero, il quale è la volontà che opera per dare struttura all’essere come ente autonomo e separato, col risultato di dare vita al suo negativo non alla sua manifestazione compiuta.
Infatti la sostanza che nasce dal pensiero, il quale crea la separazione, è proprio quella di cui abbiamo parlato in precedenza ed individuato con la parola “nulla”.
Senza il concepimento del nulla, non esiste l’ente, non esiste la materia, non c’è la terza dimensione.
Superato il problema della materia, che è presenza artificiosa e caduca, la quale non resisterà alla continuità dell’eterno, perché ne costituisce una contraddizione, resta una sola sostanza, immateriale, ed unica: il suono, che si articola nella voce.
La voce, in quanto individuabile, è limite dell’essere illimitato.
“Suono”, a sua volta, significa suo — no, e, cioè, negativo dell’essere, come si conviene a qualsiasi sensazione che, in quanto sia percezione, è forma, e, dunque, negativo della non discontinuità. E’ dunque su questa sostanza, il negativo dell’essere, che bisogna premere, onde transitare dall’incompiutezza della voce, alla luce, nella riconoscibilità della parola.
E’ quello, il punto sul quale bisogna agire.
D’altro canto la voce, quale apparizione limitata, dell’illimite, non può essere una struttura finita.
E’ una sorta di addensamento, intelligente e intelligibile, che attende sviluppo, affinché assuma una sua connotazione.
Ebbene, la riflessione sulla voce, finché non divenga leggibilità nella parola, è il percorso che porta alla luce della conoscenza, che èl’identità, cioè il corpo dell’uomo e di Dio.
Ciò che io chiamo voce, è esattamente quel suono che la nostra cultura denomina “parola”.
Il suono "cane" non è la parola, ma una “voce”.
Qualcosa, cioè, che, al primo apparire, non è ancora significante.
Perché la voce non è significante in sé, ma solo secondo una convenzione linguistica?
Per il motivo che il limite, cioè la voce, non è l’essere, ma il suo negativo.
Non possono sussistere dubbi, sul fatto che il limite sia il negativo dell’illimite.
Il paesaggio, dunque, non può che essere unidimensionale, esattamente, ad esempio, come ce lo mostra Virgilio Guidi, il quale presenta una luce che non viene dal cielo o da qualsiasi altra parte, ma è il cielo, ed offre una visione senza ombre.
La parola “cielo”, si legge “liceo”, cioè spazio chiuso, ma anche luogo dove si va ad apprendere, quindi limite, e, cioè, “voce”.
L’alternarsi di chiaro e di scuro che Guidi presenta graduando l’intensità dell’azzurro, è diversità solo apparente.
L’addensamento della luce, infatti, si colloca tra il punto di vista, in basso, e l’isola, ed è contrassegnato da un punto, che agisce da corpo estraneo, come segno di un artificio.
L’artificio che produce l’addensamento è il pensiero, il quale agisce da elemento concentratore ma che non può, in alcun modo, alterare la non discontinuità dell’essere.
Se si elimina il pensiero, il paesaggio diventa uniforme.
La luce che cerchiamo sta, dunque, nella voce, la quale attende di diventare la leggibilità della parola.
lì compito dell’uomo, consiste, appunto, nel rendere possibile questo transito.
La tua ricerca, che parte da una concezione materica dello spazio, e, dunque, da una irrealtà, è destinata ad iniziare e chiudere infiniti percorsi, il cui epilogo sarà sempre lo stesso: l’irrealtà del sapere.
L’irrealtà, cioè, che nasce dall’errore di ritenere la voce come elemento capace di strutturare, in un contesto in cui la struttura, non può esistere (espansione della non discontinuità).
Ciò che nasce dalla presunzione di “creare” mediante la voce, è la materia e ciò che si costruisce, come conseguenza, è il mondo materiale o storico, in cui viviamo.
Un mondo chiaroscurale, fatto di nascere e di morire, tanto ineluttabili, nella nostra convinzione, quanto irreali.
Nel tuo autoritratto, vedo tracciare, in maniera linguisticamente impeccabile, il mondo della materialità.
Trovo il tuo quadro l’equivalente d’un’immagine antologica, di elevato significato didattico e storico.
lì percorso inizia dall’alto, dove awiene la materializzazione del cielo, e, cioè della voce.
E’ nata la materia.
Ciò che awiene dopo è didascalico.
Prima si espande un percorso descrittivo lungo il quale l’uomo ècostretto a costruire la propria casa, il sapere, come bussola d’un mondo, fuori dalla realtà, che non gli offre il riparo della continuità nell’eterno.
lì sapere si rivela, tuttavia, per ciò in cui consiste, e cioè in una realtà virtuale che materializza solamente il controluce dell’identità, come frutto d’un volontario accecamento.
La pratica d’impiegare la voce per definire la struttura, espone la creazione alle infinite aggettivazioni del guardare e giustifica la violenza, come veicolo del consenso.
lì fare, come epilogo d’un giudizio che diventa conoscenza attraverso l’arbitrio della ripetizione, svilisce il personale rapporto col creato, attraverso un percorso il cui epilogo è la costruzione dell’autoritratto, che è manifestazione del soggettivo.
Poiché, nella non discontinuità dell’essere, l’affermazione e lo sviluppo dell’identità awengono solamente attraverso immagini universali, ecco che, d’un tratto, il mondo appare un viluppo di forme insensate ed in colori che denudano i segni della pura gestualità, così da mostrarli quali disseccati arbusti della solitudine.
lì ciclo si ripetirà, all’infinito, perché l’epilogo di ogni percorso non e altro che il morire, sotto apparenze diverse, del primo passo.
Chissà se avremo l’opportunità di sviluppare il tema.
Tu sei un pittore vero e possiedi mezzi espressivi di alta intensità.
Riesco ad immaginare un grande balcone sull’infinito, dove le tue pitture, così docili al richiamo delle tue pulsioni, brillino dei suoni che i miei scritti avessero saputo catturare, e trasfigurare nelle parole.
Se, affidandoci alla fede, ciò fosse possibile, lo sforzo in cui ti prodighi per assorbire lo spazio materiale, potrebbe vivere la leggerezza della parola scritta, che è la trasfigurazione dello spirito.
La trasparenza che collochi, tra il tuo punto di vista e la posa (il paesaggio), scelta per risucchiarne la totalità, apparirebbero come la metafora didattica di un’identità che, nelle parole, acquisterebbe corpo di vita eterna.

Con un saluto affettuoso.

Giorgio Fogazzi